Giappone e Made in Italy: il connubio vincente

/ Marzo 11, 2019/ Internazionalizzazione

Il primo febbraio entra in vigore l’accordo per il libero scambio fra Tokyo e l’Ue: saranno abolite le pesanti tariffe che frenano l’accesso al mercato giapponese e sono pronti al boom settori importanti quali vino, moda, alimentare.

Tutto è arrivato insieme e all’improvviso: in pochi mesi Tokyo ha condotto in porto il partenariato Trans-Pacifico, bocciato da Trump, e subito dopo, cosa che ci riguarda assai più da vicino, ha siglato l’accordo di libero scambio con l’Unione europea.

All’inizio del prossimo mese l’accordo entrerà in vigore. La promessa, più volte ripetuta dalle parti, è che verranno cancellati da subito il 90% dei dazi applicati dalle dogane nipponiche sui prodotti made in Europe, salendo gradualmente fino al 99% nei successivi quindici anni. Una svolta che potrebbe essere un toccasana per una serie di prodotti tricolori molto amati nell’isola, come vino, alimentari e calzature. A patto di giocarsela bene però, perché a lottare in un mercato già saturo e maturo ci proveranno in tanti.

Se c’è qualcuno ben posizionato, stando a chi lavora in prima linea sull’asse Roma-Tokyo, è la nostra industria del vino. Thierry Cohen, 55 anni, tra i principali importatori di bottiglie tricolori con la sua Japan Europe Trading, racconta come negli ultimi anni il Sol Levante sia stato letteralmente invaso da etichette cilene, che oltre a un costo di produzione più basso potevano contare su passaggio libero alla dogana. Il Paese sudamericano se ne è avvantaggiato salendo dall’8 a oltre il 30% del mercato, primo posto, rubando quote a tutti gli altri soprattutto nei supermercati. Non all’Italia però: pur appesantiti da una tariffa di circa 30 centesimi a bottiglia, i nostri vini hanno difeso il loro 20%. E dal primo febbraio la tariffa sparirà.

Non sarà una battaglia sulla fascia alta, ma su quella media e bassa, dove i dazi incidono di più. In un Paese reduce da anni di stagnazione e deflazione come il Giappone il prezzo conta. E in quel segmento i produttori italiani offrono prezzi più contenuti dei francesi e qualità più alta degli spagnoli. Ma se per il vino la strada verso le tavole dei giapponesi pare spianata, su altri prodotti gli effetti dell’accordo saranno più diluiti nel tempo. I produttori di formaggi per esempio, settore di punta italiano nonostante tariffe al 30%, dovranno armarsi di pazienza prima di vederle azzerate. Per gli stagionati come il Parmigiano Reggiano, il taglio sarà progressivo nel corso di 15 anni. Per i freschi come la mozzarella, spiega Cohen, sono state invece fissate delle quote di importazione che godranno di ingresso doganale agevolato, «ma appena un decimo degli importatori che hanno presentato richiesta è riuscito a riceverle».

Senza contare le lamentele di molte associazioni per la tutela solo parziale delle indicazioni geografiche tipiche. La pasta vedrà una riduzione a scatti, che aiuterà i produttori italiani a difendersi dalla concorrenza a basso costo (e zero tariffe) dei turchi; stessa gradualità per le carni di manzo o maiale, prosciutti di Parma compresi. Mentre altre eccellenze italiane, come dolci o cioccolato, si devono accontentare dell’impegno delle parti a proseguire il negoziato. Si vedrà. Insomma a dispetto della trionfale retorica di Bruxelles non tutto sarà immediato. Né semplice: le aziende italiane che vogliono esportare in Giappone con il nuovo regime si dovranno registrare ad un sistema informatico e attestare l’origine tutta europea dei loro prodotti. Facile nel caso di un’oliva, meno per una scarpa.

Anche in Estremo Oriente le aziende tricolori scontano limiti come la scarsa dimensione, la debolezza della rete distributiva e l’incapacità di fare sistema. A questi si aggiungono le peculiari difficoltà del mercato locale, lontano dalla spettacolare crescita del vicino cinese. Una società sempre più anziana, che grazie all’Abenomics ha ritrovato la crescita, ma di pochi decimali. Una piazza dove perfino i brand del lusso sono andati in crisi, divorati dal fast fashion di Uniqlo o Zara, lasciando aperti i negozi a Tokyo e Osaka solo per i turisti cinesi in vacanza. Nonostante questo, i dati del 2018 parlano di un aumento in doppia cifra delle esportazioni italiane nel Paese, proiettandoci verso uno storico sorpasso sulla Francia. Insieme alla farmaceutica e all’auto, settori che l’accordo di libero scambio tocca in minima parte, la moda resta una delle maggiori voci. Secondo Cantatore, almeno nel lungo periodo, l’intesa la dovrebbe favorire.

L’Italia è leader nel settore di scarpe e borse in pelle, finora protetto con tariffe tra il 15 e il 30% anche per motivi culturali legati alla scarsa considerazione sociale di cui soffre chi lavora con il sangue animale. L’accordo prevede una riduzione graduale, con i dazi che dovrebbero arrivare a zero in 10 anni. Trasformare questa passione in nuove esportazioni non è banale. Ma dal primo febbraio, quando si ritroverà all’interno della più grande area di libero scambio del pianeta, l’Italia avrà un’occasione in più.

Fonte “La Repubblica”.

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